Ci siamo rivolti alla clinica RAPRUI nel 2019 e la dottoressa Monica Antinori ci ha seguiti fin dalla prima visita. Si è instaurato subito uno splendido legame, così come con il resto del suo gruppo. Tutta l’equipe e composta da professionisti, cortesi e gentili, sempre disponibili a spiegare e a trovare la soluzione migliore per il nostro caso. Esattamente all’opposto dell’esperienza che avevamo appena concluso in un altro centro.
Io e mio marito avevamo circa 30 anni, abbastanza giovani per avere un bambino in modo naturale, ma lui ventenne era stato colpito da un linfoma e le cure a cui si era sottoposto avevano interferito con la sua fertilità. I medici che lo avevano seguito per fortuna gli consigliarono di raccogliere dei campioni di liquido seminale da crioconservare, e così abbiamo fatto.
Sapevamo di doverci rivolgere alla fecondazione assistita e abbiamo scelto di restare nella struttura sanitaria pubblica in cui mio marito era stato curato e dove erano conservati i suoi gameti. Purtroppo è stata un’esperienza tragica!
Ho rischiato parecchio: andavo sempre vicino all’iperstimolazione. Stavo male, ma era difficile parlare con qualcuno, non ti spiegavano mai nulla, non sapevi a chi rivolgerti per dubbi o difficoltà. La risposta era sempre la stessa: seguivano il protocollo. Questo significava un approccio comune per tutti i casi, non personalizzato e quindi il pick-up ovocitario e il transfer dopo 3 giorni, alla cieca, come andava andava. O almeno questa era la sensazione per noi.
Non so quanti ovuli mi hanno prelevato, credo 11, e mi è parso di capire che fossero di scarsa qualità, tutti, senza spiegarmi come e perché. Ovviamente l’embrione non attecchì e fu un fallimento totale.
Subito dopo ci siamo rivolti al centro RAPRUI e alla Dottoressa Antinori, di cui ci avevano parlato alcuni amici e l’approccio è stato totalmente diverso. Ho fatto tutta la procedura da capo, con una nuova stimolazione, ma prima hanno fatto riposare il mio organismo un mese, il tempo di far tornare il ciclo e il transfer è stato fatto al quinto giorno con un embrione in blastocisti.
Un passaggio necessario poiché i miei ovociti, prodotti in quantità minore, non risultavano effettivamente di buona qualità. Con la dottoressa Monica, facendo delle indagini specifiche, si era evidenziato questo mio limite fisiologico. La gravidanza comunque andò in porto, ma dopo 6 settimane è finita per un aborto spontaneo.
Il lockdown ci ha obbligato a stare fermi per 5-6 mesi. In questo periodo ci siamo guardati intorno, verso altre strutture sanitarie specializzate in fertilità: un confronto che ci ha fatto comprendere però che continuare a farci seguire dalla dottoressa fosse la migliore soluzione, sotto tutti i punti di vista. Non solo per la qualità professionale, ma anche per l’approccio umano. La dottoressa mi è stata vicino subito dopo l’aborto, ci siamo sentite via Skype e Whatsapp durante la quarantena e ho trovato in lei un’umanità incredibile. Si è creato un legame, speciale.
Faccio solo un esempio della sua disponibilità: i calcoli per il monitoraggio ecografico cadevano di domenica. Nella struttura pubblica non si facevano ecografie nel fine settimana e mi domandavo chissà quanti cicli non andavano a buon fine per questa cosa. Mi sembrava assurdo, visto che ci sono dei medici con dei turni, mentre poteva essere normale non lavorare nei festivi in una clinica privata. E invece no! Esattamente il contrario: l’ecografia andava fatta di domenica e la dottoressa Monica ci accolse di pomeriggio. C’eravamo solo noi 3!
Con il limite della scarsa qualità degli ovuli insieme con la dottoressa Antinori abbiamo poi optato per l’ovodonazione. Il primo impianto a novembre non è andato bene. Lei non se ne faceva una ragione. Mi disse: “Possiamo superare insieme questa sfida”. Mi ha dato molto coraggio. A marzo il nuovo transfer e finalmente tutto è andato benissimo ed è arrivato nostro figlio Alessandro. E ora ci stiamo riprovando di nuovo per una seconda gravidanza!